Lucio Corsi: «All’Eurovision porto me stesso, non effetti speciali. La gara? Non me ne frega niente» (2025)

Che ci fa Lucio Corsi all’Eurovision Song Contest? Bella domanda. Già nella prima semifinale, dov’era sul palco come fuori concorso, abbiamo visto che il 31enne cantautore di Volevo essere un duro c’entra poco o niente con la sagra grande del trash e degli eccessi – scenici, estetici, sonori: nel bene e nel male – che è l’Eurofestival. «Non ho mai pensato a chissà quali effetti speciali», confessa lui, che per l’occasione ha scelto una coreografia minimale, influenzata «dall’occhio da regista» di Tommaso Ottomano, che suona con lui. «È la stessa», dice, «che porto e che porterò in tour anche quest’estate, con due enormi amplificatori ispirati a Neil Young». Neil Young, cioè una leggenda del country rock di ottant’anni. All’Eurovision. E poi il linguaggio, quelle animistico delle fiabe, che è poi anche quello delle sue canzoni. «Ho capito che i brani sono forzati a stare in un certo contenitore, come anche questo, poi si ribellano. Quello che vedete sono io: in scena faccio ciò che faccio in concerto, né più e né meno; soffrirei a essere altro da ciò che sono realmente».

Lucio Corsi: «Non sono innamorato. Al matrimonio e ai figli non penso, magari accadrà, ma è una cosa che non mi interessa tanto. All'Eurovision non voglio raccontar "frottole"»

Lo hanno chiamato «folletto», «poeta», «Bowie», ma lui non ci sta. Lucio Corsi sfugge alle definizioni e spiega chi è davvero. Dai figli (a cui non pensa) alle «prime volte» (vedi alla voce Eurovision), ritratto di un cantastorie che non voleva essere un guru

Che dire: voleva essere un duro, ha vinto facendo il puro, anche a Basilea, al di là di come andrà domani. È già un prodigio essere lì. «La musica non è una gara: amo sport, la competizione, il gesto atletico; ma le canzoni sono altro». Più che frasi di circostanza, è coerenza. Un cortocircuito dopo l’altro. Per esempio, la scenografia è la stessa del Festival di Sanremo, con pianoforte e chitarra. «È stato un salto nel vuoto, l’Ariston. Ma anche una bella scuola per una situazione come questa». Il punto è che, però, all’Eurovision non si possono suonare gli strumenti. «Infatti sono con noi sul palco solo per farci compagnia, sono spenti». Un altro paradosso. «Suono dal vivo solo l’armonica a bocca, per un motivo tecnico: non è amplificata, il soffio passa dal microfono della voce, il regolamento lo ammette. Ma lo dico senza polemiche: accetto le regole, ne sono sempre stato a conoscenza». Di nuovo: più che un ribelle – o, insomma, un duro – è un puro. «I pezzi in gara sono tutti belli a modo loro, specie perché diversi. Mi piace che qui ciascuno porti la sua idea di musica». La sua, neanche a dirlo, coincide con quella dei portoghesi NAPA con Deslocado, anche loro parecchio tradizionali.

Per il resto, in conferenza con i giornalisti si avvita diversi minuti – e il tempo, all’Eurovision, è tiranno per eccellenza, mezz’ora d’incontro, pare, è tanto – a parlare di chitarre e tecnicismi vari, mostrando un feticismo per gli strumenti da nerd. E cita Guccini, i cantautori di sempre. La loro lezione è qui, nel testo in sovraimpressione con la traduzione, unico della prima semifinale a farlo. «Abbiamo scelto un inglese basilare, così che lo possano comprendere in tutta Europa. Presto molta attenzione alle parole, ovviamente. Ma anche al loro suono. Mi piace che il festival non sia tutto e solo in inglese, è una ricchezza. Ma vorrei capirci di più: il pezzo della Slovenia, forse, è uscito presto perché è sfuggito a tanti». Nel dubbio, gli dicono, dal Messico ci sono adolescenti che si sono appassionati a Volevo essere un duro, alle risposte che dà. «La verità è che è un pezzo sui dubbi tipici di quell’età e sull’amicizia, prima di tutte quella tra me e Ottomano. Sono per i giovani, nel senso che dovremmo essere noi adulti ad ascoltarli, altro che indirizzarli. Ma non so immaginarmi cosa avrebbe potuto comunicare questo brano al me 17enne: suonavo il prog, probabilmente l’avrei scartato perché troppo poco prog».

Il tema è: questa purezza, questo tipo di approccio, pagherà? Sanremo è un ottimo precedente, ma è pur sempre un’altra cosa. Qui invece è una giungla, il pubblico è vario e multiforme e il palco è ancor più tritacarne dell’Ariston. Si vedrà domani (diretta in prima serata su Rai 2), per ora le quote dei siti di scommesse sono caute. Figurarsi lui: «A me della gara non frega assolutamente niente». Della tv, è il sottotesto, appena il giusto. Gli interessano semmai i cari vecchi concerti. «Oltre che con l’esperienza, vorrei tornare a casa con la possibilità di fare dei live in giro per l’Europa, per aprirmi al mercato internazionale». Magari in autunno, visto che da giugno a settembre è in tour in Italia, comprese le due grandi date negli ippodromi di Roma e Milano. «Ma l’estero, come live, è un’idea. Se lo merita in primis la mia band, con cui suono ormai dal liceo».

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